giovedì 25 settembre 2008

Les coeurs brulés - A. el Maanouni (2007)


Documentarista ed autore tv, il sessantaquattrenne marocchino Ahmed el Maanouni realizza il suo terzo lungometraggio in un bel bianco e nero che serve – sono parole del regista – a togliere alle immagini ogni "esteticità".
Il film del resto è duro e, dice ancora el Maanouni, autobiografico. Sostenuto dal progetto europeo "Medscreen", di promozione e diffusione del cinema arabo, dunque proiettato in numerosi festival internazionali, Les coeurs brulés narra la storia di un architetto marocchino fuggito in Francia, dove ora vive e lavora, ma tornato a casa per assistere alla lenta morte dello zio. E questo ritorno è l'occasione per il pubblico di ripercorrere assieme al protagonista le vicende dolorose che ne hanno causato la fuga e di intrecciarle con quelle, altrettando intense, che lo accolgono al suo rientro.
In più punti cantato, questo film porta con sé un'ammirevole pulsione verso la libertà. Non a caso il canto, da sempre simbolo di emancipazione, di amore e di libertà.
Cosa cerca il piccolo Amin quando scappa per i vicoli della medina di Fez, per sfuggire agli altri bambini che gli danno del "bastardo" per la sua disastrata situazione familiare e lo inseguono lanciandogli pietre, oppure per sottrarsi al dispotico zio che lo obbliga a lavorare nell'officina da fabbro assieme a lui mentre Amin preferisce andare a scuola? Anche altri, nel film, sono alla ricerca di una via di fuga da un mondo non facile e anzi ancora pieno di costrizioni e chiusure mentali, come quello maghrebino: Hourya, giovane donna, vuole sottrarsi al dispotismo del fratello che le impedisce di amare Amin. Il rasta-man, sempre con le cuffie nelle orecchie e la musica di Bob Marley sparata dentro, vuole invece scappare in Jamaica, o meglio lo fantastica tra una canna e l'altra, visto che non riesce a trovare altro che lavoretti occasionali, zero futuro e zero prospettive.
Lo zio morente non dice una parola per tutto il film e, durante le visite in ospedale, Amin si strugge, soffre, piano piano si accascia, abbandonandosi contro la parete bianca che ha alle spalle, come sopraffatto dalla tristezza dei ricordi delle violenze e delle costrizioni, ma forse anche dal fatto che è costretto a farci i conti da solo. Senza ricevere scuse, comprensioni, dichiarazioni di pentimento. Amin è solo in questo percorso doloroso di ricostruzione e rimossione della memoria, così come solo era quando – dopo la morte della madre – venne costretto a fuggire per sottrarsi alle angherie dello zio, arrivato persino a marchiarlo a fuoco con un tizzone ardente.
Tanti altri sono gli spunti che regala questo lungometraggio piuttosto breve (84min.) ma altrettanto intenso: dal richiamo all'avidità degli uomini "che avrebbero tutto ma non si fanno mai bastare niente", alla stranezza dell'animo umano, mai contento e sempre alla ricerca di altro. E proprio all'altro – o meglio all'altrove – che fa riferimento invece il verbo del titolo – bruler – con il quale si indica in tutto il maghreb anche l'atto dell'emigrare clandestinamente ("bruciare la frontiera").
Amin è dovuto sfuggire, alla ricerca – si diceva – di libertà, e pare aver trovato in Francia, se non altro, il successo professionale. Tanti altri giovani oggi decidono di partire, alla ricerca di una libertà che in molti casi è diversa: è la libertà di comprare, di sentirsi parte di un mondo ricco ed apparentemente senza limiti di spesa. Contro questo tipo di emigrazione el Maanouni scocca ogni tanto qualche freccia, come il verso di una canzone (ancora la musica) che dice: "anche se ti comprerai le Nike resterai sempre un marocchino".
Di tipo diverso, invece, è la libertà inseguita dall'emotiva Hourya, che vuole ribellarsi all'arroganza del fratello, il quale si oppone con la sua stupida autorità maschile alla storia di amore di sua sorella con Amin, che viene per questo inseguito (ancora la fuga) e poi riempito di botte. Anche Hourya vuole scappare, dunque, anche lei insegue la sua libertà, questa volta di amare e di non sentirsi più prigioniera di una mentalità opprimente. Lo propone al suo innamorato, ma Amin rifiuta, non vuole più partire.
Pur fra l'angoscia dei ricordi ed i pericoli di essere ancora picchiato, egli non si decide a tornare a Parigi, dove avrebbe tutto quello che desiderano alcuni suoi connazionali disposti a tutto pur di raggiungere l'Eldorado-Europa. Il suo posto è qua, il suo posto è a casa, in Marocco, a Fez. È qui che, a distanza di anni da quell'infanzia tormentata, fatti i conti con il passato, egli proverà a ricostruirsi la sua libertà e la sua vita. Amin decide di "accontantarsi" di questo, di non correre più verso un altrove che forse non è quel paradiso che sembra da Sud.
Non a caso, l'unica scena girata a colori -come una "rivelazione" - è quella in cui il vecchio poeta Ba Jelloul gli porge le condoglianze per la morte dello zio e (cantando) gli raccomanda di cercare la via di uscita dentro di sé, senza più scappare.

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